Il distanziamento sociale necessario a contrastare la diffusione del contagio da coronavirus a cui siamo sottoposti da diverse settimane è stato promosso con campagne mediatiche che esaltano la bellezza dello stare in casa: “finalmente ci possiamo dedicare a tutto quello che non riusciamo a fare nel normale tran tran quotidiano”, leggere, fare yoga, vedersi un bel film e chi più hobby ha più ne metta…
Ma la realtà è ben diversa, la retorica imperante omette che lo stare chiusi in casa, la cosiddetta quarantena, l’isolamento, o in qualsiasi altro modo vogliamo chiamarlo, ha significato per milioni di famiglie di lavoratrici e lavoratori principalmente una cosa: la cancellazione assoluta di quel po’ di stato sociale, già prima insufficiente, su cui si appoggiavano, asili, scuole, servizi assistenziali per anziani e disabili.
Il governo ha varato un pacchetto di misure, il decreto “Cura Italia”, che rispetto alla portata delle esigenze che rimangono scoperte suonano come una vera e propria presa in giro.
Scuole e asili
In Lombardia ed Emilia-Romagna le scuole e gli asili sono chiusi dal 24 febbraio, nel resto d’Italia dal 2 marzo, e sarà così nella migliore ma meno probabile delle ipotesi fino al 3 aprile, molto più probabilmente per diverse settimane in più. Se la matematica non è un’opinione stiamo parlando di almeno un mese con i bambini a casa, togliendo i sabati e le domeniche venti giorni lavorativi a fronte dei quali cosa mette a disposizione il governo a sostegno delle famiglie? Nientepopodimeno che un congedo parentale di 15 giorni al 50% dello stipendio per i mesi di marzo e aprile (sottintentendo quindi che dovranno bastare anche in caso di chiusura, quasi certa mentre scriviamo, dei servizi scolastici nel mese di aprile). Questi 15 giorni comprendono i 3 già previsti dalla legge 104, quindi in realtà ce ne sono solo 12 in più, che valgono per l’intero periodo di marzo e aprile. Tirando le somme, come hanno fatto gli uffici della presidenza del Consiglio competenti, per rispondere a chi aveva (purtroppo) malinterpretato il decreto, si tratta in totale di 18 giorni per il bimestre marzo-aprile, quindi la metà del necessario, e per di più a stipendio dimezzato.
In alternativa è usufruibile un voucher di 600 euro con cui pagare una baby sitter. Anche qui tocca fare i conti della serva: per quanto le baby sitter siano sottopagate, con una media stimata intorno agli 8 euro orari lordi e giornate lavorative di 8 ore, non si arriva a coprire 10 giorni di lavoro di un genitore. Anche senza una calcolatrice alla mano, queste misure non sono nulla di fronte alle reali esigenze di milioni di lavoratrici e lavoratori che si sono ritrovati con la prospettiva di avere i bambini a casa per mesi.
Per chi può, certo c’è lo smart working, che in questi giorni è risuonata come la parolina magica che salva capra e cavoli, resti a casa sì ma senza interrompere la tua attività lavorativa, e come? se contemporaneamente hai i figli da curare?
Per non parlare di tutti quei lavoratori che sono nei servizi essenziali, in primo luogo la sanità – dove il congedo neanche se lo sognano, ma anche la distribuzione alimentare e i trasporti; sono stati chiamati angeli, eroi, lavoratori in trincea, ma non ci si è posto il problema di come facciano a conciliare i figli a casa con i turni massacranti a cui sono sottoposti in questo periodo. Se è vero che per il personale sanitario (e per le forze dell’ordine?!) il buono baby sitter è di 1000 euro, ci sono però anche stati casi di coppie di medici che non sono riusciti a trovare baby sitter per la paura del contagio. E neanche si può parlare di paranoia, se consideriamo i tassi di contagio tra il personale sanitario per la mancanza di dispositivi di sicurezza proprio laddove il rischio è più alto!
Noi rivendichiamo che le lavoratrici e i lavoratori delle attività non essenziali per la gestione della crisi sanitaria rimangano a casa con salario pieno (clicca qui per l’appello) e un piano di assunzioni stabili nella sanità, in netta controtendenza con i tagli degli ultimi decenni, che consenta di garantire il congedo parentale in quelle situazioni in cui entrambi i genitori siano impegnati nei servizi essenziali in questo fase di emergenza.
Anziani e disabili
Oltre ai genitori dei minori fino a 12 anni, l’estensione del congedo parentale è estesa a chi ha carico persone con disabilità gravi. In questi casi l’inadeguatezza del provvedimento è ancora più tragica: con la chiusura dei centri diurni per disabili (cdd) per il contenimento del contagio, famiglie che hanno bisogno del supporto di personale specializzato e qualificato si sono ritrovate abbandonate a se stesse. Secondo il decreto, l’azienda sanitaria locale può attivare con i cdd interventi “non differibili” ma non si specifica quali e soprattutto non si fa alcun riferimento a misure di sostegno di una gestione quotidiana già particolarmente difficile.
Per i disabili e le persone anziane, le più vulnerabili in questa emergenza, il decreto prevede che le pubbliche amministrazioni forniscano prestazioni in forme individuali domiciliari “avvalendosi del personale disponibile, già impiegato in tali servizi, dipendente da soggetti privati che operano in convenzione, concessione o appalto”, Si configura così una situazione altamente diversificata tra le diverse regioni, in cui lo Stato centrale fondamentalmente si lava le mani e in cui tutta la responsabilità è fatta ricadere su lavoratori le cui condizioni di lavoro sono a discrezione di cooperative che vincono gli appalti sulla base del massimo sfruttamento e delle peggiori condizioni (leggi in questo caso norme di sicurezza) a cui sono in grado di sottoporre i propri dipendenti.
Se già prima dell’inizio dell’emergenza coronavirus la funzione sociale della cura di bambini, anziani e disabili era stata relegata nel privato delle mura domestiche dai continui tagli a istruzione e sanità pubbliche, oggi la situazione ha superato il limite dell’insostenibilità e a farne le spese sono soprattutto le donne.
La violenza tra le mura domestiche
E tante donne arrivano a rischiare la vita per questa situazione di abbandono, considerando che la maggioranza degli episodi di violenza sono consumati tra quelle stesse mura domestiche nelle quali oggi sono segregate. Non è un caso che sia stato registrato un calo delle denunce per maltrattamenti, calo che secondo il procuratore aggiunto di Milano a capo del pool “fasce deboli” è da ricondurre al fatto che “le convivenze forzate con i compagni, mariti e con i figli, in questo periodo, scoraggiano le donne dal telefonare o recarsi personalmente dalle forze dell’ordine”.
Non siamo tutti sulla stessa barca
La moglie di un noto conduttore televisivo ha scritto sul suo profilo Instagram: “‘Io resto a casa’ lo voglio scritto da chi vive in 50 mq con tre figli e senza tata. Non da persone che come me hanno case a due piani o ville con piscina che fanno la morale a tutti. Grazie”. Non ci sembra il caso di ringraziare per questa finta, nauseante e non richiesta solidarietà, ma sì per aver ricordato che ci sono condizioni molto diverse di vivere il tanto rilanciato hashtag #iorestoacasa.
La propaganda del governo chiede a tutti di fare sacrifici, ma la verità è che a farli sono sempre gli stessi: i lavoratori e le lavoratrici a cui è richiesto di continuare a lavorare rischiando di ammalarsi in nome del profitto dei propri padroni, i lavoratori e soprattutto le lavoratrici che devono farsi carico delle funzioni dello stato sociale che l’emergenza sanitaria ha messo anch’esse in quarantena.
Conte si è vantato del “Cura Italia” come di un “modello” che andrebbe seguito dagli altri paesi europei, una “diga protettiva” perché non si può “combattere un’alluvione con gli stracci e i secchi”. E invece no, è proprio di questo che si tratta, pannicelli caldi, misure lontane anni luce dalla reale condizione e dalle reali esigenze di milioni di persone le cui vite sono state stravolte dall’epidemia del coronavirus e soprattutto dall’incapacità del governo di gestire la crisi in maniera razionale ed efficace.
Come se non bastasse, gli sforamenti delle rigidità di bilancio statale che oggi l’Europa è costretta a concedere per permettere anche solo queste briciole, essendo finanziate dal debito pubblico, ricadranno sulle spalle dei lavoratori e delle lavoratrici, con l’austerità che questa nuova crisi del capitalismo renderà necessaria. La via d’uscita hanno cominciato a mostrarcela proprio loro con gli scioperi spontanei che, in Italia e a livello internazionale, hanno rimesso all’ordine del giorno la lotta di classe, oggi per la sicurezza delle nostre vite nell’emergenza determinata dal coronavirus, ma dobbiamo lavorare nella prospettiva che da questo primo passo emerga la consapevolezza che bisogna farla finita col sistema capitalista, responsabile in ultima istanza della catastrofe che stiamo vivendo.
Serena Capodicasa,
Sinistra Classe Rivoluzione
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